sabato 25 giugno 2016

Quando la "Democrazia" possibile é quella dei "Ricchi" per i "Ricchi" - USA una democrazia o una oligarchia ?


In una interessante intervista, rilasciata a Andre Vltchek e pubblicata sul sito web "L'Antidiplomatico", Christopher Black, uno dei giuristi più noti al mondo, ci svela un punto di vista sulla qualità della democrazia negli Stati Uniti.

Il suo punto di vista è interessante perché accende un fascio di luce su alcune verità storiche che la l'informazione tradizionalmente non ci offre.

La sua riflessione riguarda la "qualità", intesa quale rapporto di effettività, della cosiddetta "democrazia" negli Stati Uniti d'America. Tale punto di vista, in realtà, è valido anche per la maggior parte dei Paesi Occidentali, ma non solo.

Una questione centrale posta dal giurista riguarda la prossima elezione del futuro residente degli Stati Uniti. 

Alla domanda sul come mai uno Stato così importante abbia scelto, con le primarie, Donald Trump e Hillary Clinton, risponde:

"Gli Stati Uniti non sono più una democrazia dal colpo di stato del 1963, quando il Presidente Kennedy venne assassinato dal complesso militare-industriale e i servizi di intelligence. 
Gli Usa avevano avuto tanti problemi anche prima di questa data, a partire dall’indipendenza: il rapido sterminio delle popolazioni indigene e la sua marcia verso il presente imperialista con la sua prima guerra di conquista del 1812 di quello che oggi chiamiamo Canada, in particolare. Quell’invasione fu sconfitta dagli inglesi, dalle forze native e locali, ma anche allora le forze americane nei villaggi occupati dichiaravano di portare “democrazia” e “libertà”. Nessuno gli credeva chiaramente.
Poi si sono focalizzati sul Messico, sterminando gran parte del suo territorio, dichiarando l’egemonia del territorio occidentale e affermando di portare “libertà”, mentre gli schiavi neri affluivano ai loro confini. La guerra civile ha dimostrato che esisteva un paese fratturato tenuto insieme da uomini egoisti e spietati che selezionavano uno di loro come Presidente.
La corruzione nel sistema democratico degli Stati Uniti inizia, del resto, con la sua creazione. De Tocqueville l’ha descritto alla perfezione: è il comportamento di un popolo che pensa che l’individuo sia più importante del bene comune, che ognuno deve essere totalmente indipendente e in cui l’etica del profitto capitalista diviene religione di stato. 
Non è cambiato molto da allora.
E’ Tump peggiore del pazzo Bush che ha attaccato Iraq e Afghanistan, o di Bill Clinton che ha attaccato l’ex Yugoslavia e entrambi hanno posto fine alle libertà civili nel paese? E’ peggio Trump dei criminali Nixon o Johnson che hanno distrutto Vietnam, Laos e Cambogia, e che hanno torturato migliaia di comunisti e attivisti in America Latina? E’ peggio di Truman che ha ordinato la distruzione di Hiroshima e  Nagasaki? 
E’ chiaro a tutti che i candidati sono sempre di qualità più bassa. Ma questo semplicemente riflette lo stato politico attuale dove solo i ricchi possono ambire a queste posizioni. La cerchia di candidati è ristretta e provengono da una classe che conosce solo una cosa nella vita, fare soldi non importa come e prendere il potere per continuare a fare i soldi.  
Per farlo hanno bisogno del controllo delle popolazioni. Le condizioni economiche di molti americani causa rabbia crescente e gli omicidi di massa continui sono il segno di una società sempre più frustrata. 
E’ una situazione veramente pericolosa. Quindi la scelta tra un buffone razzista populista, Trump, contro la macchina di morte Clinton, è il frutto delle circostanze. Sono i candidati che possono rifocalizzare questa rabbia creando capri espiatori.
Per me che vivo in Canada e guardo gli eventi dal confine, gli Stati Uniti continuano il loro declino in uno stato imperiale totalitario gestito da una oligarchia che non ha alcun interesse verso la classe lavoratrice ma pensa solo ad accumulare ricchezze personali. Sono spietati, irrazionali e sono imbevuti dei falsi valori della loro presunta superiorità. Per questo sono molto pericolosi. Quindi la mia risposta è: questa nazione è un pericolo incombente per il mondo".

Quindi, gli Stati Uniti posso essere considerati quale modello di democrazia ?

"Un sistema in cui solo due partiti possono partecipare alla spartizione del potere e sono due partiti espressione della classe finanziaria e industriale dominante non sono una democrazia. Un sistema in cui nessun partito di massa di lavoratori può costituirsi e in cui solo i ricchi possono prendere parte, non può essere una democrazia. Infatti un grande giornalista e accademico statunitense ha affermato che gli Usa non sono una democrazia, ma un’oligarchia in cui le persone sono addormentate con “mass entertainment and mass shootings”. 
Prendere parte alle elezioni significa supportare questo sistema".

Offro questo stralcio di intervista quale spunto di riflessione sperando che possa contribuire ad aprire la nostra mente verso orizzonti che nessuno ci racconta.

Dott. Victor Di Maria





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domenica 19 giugno 2016

LA SEMANTICA DEI TERMINI: LA POLITICA DELL'ANTIPOLITICA METAMORFOSI DELL'HOMO POLITUCUS di Victor Di Maria



Il festival della retorica politica ha trovato il suo culmine trionfante nel termine "Antipolitica"  usato da chi, per professione, fa il politico.

Siamo di fronte al traguardo finale del "Gran Prix" dell'illogicità semantica, ossimoro assoluto.

I politici che invocano tale ossimoro volendone intestarsi la rappresentanza mettono sotto accusa la "politica". Per dare lustro e forza contenuntistica a tale "illogicità" il "politico" "Antipolitico" celebra se stesso, il suo essere "non essere politico" attraverso l'uso disinvolto di un vocabolario variegato.

Così, il "fare" diventa primario sul "parlare", "discutere" e altri simili perditempo democratici.

L'elogio del fare è infatti organico alla svalutazione del "pensare", "verificare", "confrontare". In politica, l'antipolitica, violenta la ragione (Ratio) introducendo la cultura ed il linguaggio "aziendalistico" nel quale prevale l'idea del decisionismo del "management" nella cui dimensione il confronto è del tutto inutile. Se è uno solo a decidere si fà tutto prima e subito. Si fa, ovviamente, la "Sua" volontà.

E così il "Politico" "Antipolitico" esalta la "politica" della "non politica" al fine di mistificare ogni cosa, negare l'evidenza, confondere, camuffare la realtà, sdoganare "se stesso" verso una percezione che gli altri devono avere della "novità", del "non vecchio", il "nuovo".

E su questo pericoloso crinale di aberrazione linguistica si gioca la partita della confusione attraverso l'uso improprio di termini cambiandone geneticamente il significato.

Il "Popolo" oramai è ridotto al significato di "maggioranza degli elettori", mortificando e violentando il concetto di sovranità in quello di "delega della sovranità".

L'evoluzione della semantica dei termini politici tende a rendere il significato delle parole mutevoli, a seconda del soggetto che li usa. Vittima illustre della nuova borsa dei valori linguistici è stata la "CULTURA".

Tutti ricordiamo la famosa frase (non "qui si fa l'Italia o si muore") "con la cultura non si mangia". Di tal discredito sono stati investiti, a cascata, gli intellettuali. "PROFESSORI" è diventato spregiativo. Cosicché, i "professori" che criticano la "riforma" costituzionale sono diventati il simbolo della zavorra contro il "cambiamento".

Le parole tendono a separarsi dal loro senso, a cambiare, come le cose, la loro "destinazione d'uso".

Il significato di "DEMOCRAZIA" è diventato il governo  dei potenti che chiedono e ottengono il consenso dei più deboli.

Aveva scritto ORTEGA Y GASSET: "L'anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l'audacia di affermare il diritto della volgarità e lo impone ovunque".

Quelli che hanno avutuo tutto estraggono "da se stessi il peggio che rispecchia il peggio che c'è nella società: volgarità, incultura, irresponsabilità, rapacità", per citare Zagrebelsky, spingendo la gente a fare lo stesso ai danni dei propri simili meno fortunati.

L'incitazione all'insofferenza verso i migranti ne è la rappresentazione plastica.

Viviamo in pieno decadentismo e il dramma di tutto ciò è conclamato nella totale e diffusa riluttanza a voler vedere il marcio che, purtroppo, è talmente vicino a noi che il suo puzzore non viene più distinto dal nostro poichè, probabilmente, sta dentro di noi.

Victor Di Maria

domenica 12 giugno 2016

ESCLUSIONE DEL SOCIO NELLE SOCIETÀ DI PERSONE - Dott. Victor Di Maria


Il Codice Civile, Sezione V del Capo II, disciplina lo svolgimento del procedimento di scioglimento del rapporto sociale nelle società di persone (Snc - Sas).

La norma prevede la fattispecie al fine di mirare alla conservazione dell’ente societario.
L’ipotesi dell’esclusione del socio di società di persone è disciplinata dagli artt. 2286 e ss c.c..  
Le cause di esclusione possono suddividersi in due categorie: cause di esclusione di diritto e cause di esclusione facoltative.
Nel primo caso, come previsto dall’art. 2288 c.c.,  è escluso di diritto :
  1. Il socio che sia dichiarato fallito, salvo  che non si tratti di fallimento conseguente al fallimento della società.
  2. Il socio il cui creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota, nei casi consentiti dalla legge.
Nel secondo caso, è l’art. 2286 c.c. a disciplinare le cause che legittimano la società a deliberare l’esclusione del socio.
Esse devono essere previste dal contratto sociale, ragion per cui qualora ciò non avvenga il verificarsi di una di esse non comporta l’esclusione automatica.  
Per ciò che attiene alle cause di esclusione facoltativa esse possono suddividersi in tre categorie:

Gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge o dal contratto sociale.

Senz'altro, fra queste, è possibile farvi rientrare, per esempio,  il comportamento ostruzionistico del socio che si opponga sistematicamente ad ogni operazione sociale, paralizzando l’attività della società e tenendo un comportamento che viola il generale principio di buona fede.
Inoltre, è possibile considerare anche la gravità delle inadempienze contrattuali: esse potranno essere considerate tali anche quando le stesse abbiano inciso negativamente sulla situazione dell’ente, rendendo disagevole il raggiungimento dei fini sociali.

Interdizione, l’inabilitazione del socio o la sua condanna ad una pena che comporti l’interdizione anche temporanea dai pubblici uffici.

Sopravvenuta impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile agli amministratori.  

La disciplina che riguarda il procedimento di esclusione è contenuta nell’art. 2287 c.c.
Si tratta di una formula di risoluzione parziale del contratto, una reazione dell’ente alle inadempienze di cui sopra.
Nel caso in cui la società sia composta da due soli soci, non si applica il procedimento di esclusione suddetto ma, come previsto all'ultimo comma dell’art. 2287 c.c., l’esclusione di uno di essi è pronunciata dal tribunale  su domanda dell’altro.
Si consiglia, in tal caso, massima prudenza nella raccolta e produzione di tutti i documenti e atti idonei a comprovare e sostenere le motivazioni del socio che richiede l'esclusione dell'altro.
Il procedimento di esclusione del socio non implica, quindi, la necessità di adottare un vero e proprio metodo collegiale, in quanto è la somma delle volontà determinanti l’esclusione del socio a conferire unità all'atto e a renderlo riferibile alla società.
Tale posizione, confermata soprattutto dalla giurisprudenza, è stata contrastata da una parte della dottrina tendente a favorire il metodo collegiale.
Nonostante i contrasti dottrinali, la giurisprudenza è rimasta ferma nella propria posizione, per cui la formazione della volontà nelle società di persone, anche nelle ipotesi particolari come quella in esame, è determinata dalla semplice raccolta, anche separata, di un numero di consensi idonei a determinare la maggioranza richiesta dalla legge.
Di seguito riporto breve massimario:
Società di persone - Violazione dei doveri inerenti al rapporto gestorio - Violazione degli obblighi del socio - Revoca per giusta causa della facoltà di amministrare - Esclusione dalla società - Presupposti
Allorquando il socio amministratore compia atti contrastanti non solo con i doveri inerenti al rapporto gestorio, ma anche con gli obblighi ad esso incombenti quale socio, tali fatti ben possono costituire presupposto, oltre che per la revoca per giusta causa della facoltà di amministrare, anche per l'esclusione dalla società ai sensi dell'art. 2286, primo comma, c.c., quando si connotino in termini di gravità tale da compromettere il conseguimento dell'oggetto sociale (cfr. Cass. 30 gennaio 1980, n. 710; Cass. 17 gennaio 1956. n. 103); in proposito occorre precisare che la gravità delle inadempienze legittimanti l'esclusione del socio ricorre non solo quando le stesse siano di consistenza tale da impedire il perseguimento dell'oggetto sociale, ma anche quando le stesse abbiano inciso negativamente sulla situazione dell'ente, rendendo disagevole il raggiungimento dei fini sociali (cfr. Cass. 1 giugno 1991, n. 6200; Cass. 17 aprile 1982, n. 2344).(riproduzione riservata) Tribunale di Roma 8 febbraio 2013.
Società in nome collettivo - Recesso del socio per giusta causa - Comunicazione al registro imprese - Presupposti - Adozione di delibera dei soci - Non necessità.
Le modificazioni dell'atto costitutivo di società in nome collettivo derivanti dallo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio per morte, recesso, o esclusione non devono necessariamente risultare da una delibera dei soci; l'amministratore della società ha, quindi, l'obbligo di richiedere l'iscrizione nel registro delle imprese della modificazione che sia conseguenza del recesso per giusta causa del socio. (riproduzione riservata) Tribunale di Bari 3 ottobre 2011.
Dott. Victor Di Maria

sabato 11 giugno 2016

Diritto di accesso civico


1. Premessa.
Questo Governo nasce con l’obiettivo di introdurre delle riforme strutturali che da tempo avrebbero dovuto essere adottate in Italia e finalizzate a rendere il nostro Paese maggiormente competitivo e attrattivo per gli investitori esteri.
A tal fine, proseguendo l‟opera di rinnovamento posta in essere dal D.l. 24 giugno 2014, n. 90 (in Gazzetta Ufficiale – serie generale – n. 144 del 24 giugno 2014), coordinato con la legge di conversione 11 agosto 2014, n. 114 (in questo stesso Supplemento ordinario – alla pag. 1), recante: “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari” 1 , carattere di priorità logica ha assunto la recente “Legge delega 124/2015”.(meglio conosciuta come “Legge Madia”), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 187 del 13 agosto 2015 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” 2 , con la quale sono state conferite al Governo una serie di deleghe, finalizzate a riformare strutturalmente la P.A., in un‟ottica di semplificazione della struttura amministrativa. Una delle caratteristiche più interessanti del disegno riformatore – alla luce della trasversalità che contraddistingue tale riforma – è quella di affrontare la riforma dell‟amministrazione pubblica come un tema unitario, anche se poi gli interventi si ripartiscono necessariamente nei singoli settori.
Tale approccio appare innovativo rispetto al recente passato e prende spunto dai più importanti interventi riformatori di inizio e fine anni ‟90 del secolo scorso.
La riforma in esame, appare rilevante perché da un lato, interviene con norme incisive sull’apparato pubblico nel suo complesso e, dall’altro, guarda al di fuori della macchina amministrativa e introduce disposizioni normative che se ben formulate e ben raccordate con altre norme dettate in differenti “corpus” legislativi, potrebbero incidere effettivamente sul rapporto tra cittadini e P.A., in una visione connotata da una più accentuata centralità del destinatario del servizio pubblico (l‟utenza) e non l‟apparato che fornisce il servizio medesimo.
Tra i vari settori oggetto del disegno riformatore portato avanti con la “Legge Madia”, l‟art. 7, rubricato “Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza”, delega il Governo ad adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi finalizzati ad integrare ovvero modificare le previgenti discipline dettate in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di cui al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33. Inoltre, entro un anno dall’entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi emanati in attuazione di detta delega, il Governo è legittimato ad adottare, uno o più decreti legislativi correttivi o integrativi.
Nell’adottare tale delega, il legislatore delegante è tenuto all‟osservanza di un‟eterogeneità di principi e criteri direttivi, contraddistinti dalla trasversalità dei singoli settori del diritto interessati e, accomunati, dall’accentuato ruolo ascritto al principio di trasparenza (id est: pubblicità), quale strumento di controllo democratico esercitato dai cittadini, sull’operato della P.A..
In particolar modo, il Governo è chiamato ad attenersi ai principi e criteri direttivi discendenti dal combinato disposto degli artt. 1, c. 35, l. 6 novembre 2012, n. 190 relativa alle “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, e 7, c.1 della riforma Madia.
La suddetta delega, è stata attuata con lo schema di decreto legislativo dell’11 febbraio 2016 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, e sul quale, nel frattempo, ha già espresso il proprio esaustivo parere la sezione consultiva del Consiglio di Stato.
Sulla base di tale schema di Decreto, svolgerò alcune considerazioni, soffermandosi, in particolar modo sulle modifiche apportate all’istituto dell‟accesso civico di cui all’art. 5 del D.lgs. 33 citato.
2. La nozione di trasparenza.
La prima rilevante novità è contenuta nell‟art. 2 dello schema di decreto, che modifica l‟art. 1, c.1, D.lgs. 33/2013, il quale specifica la nozione del principio generale di trasparenza – strettamente correlato e funzionale a quello di prevenzione e lotta alla corruzione di cui alla legge 190/2012 – andando oltre alla definizione contenuta nelle previgenti disposizione normative (artt. 1, c.1 –bis, l n. 241/90 e 11, D.lgs. n. 150/2009)10, definendola come accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, finalizzata non soltanto a favorire forme diffuse di controllo da parte dei consociati sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull‟utilizzo delle risorse pubbliche, ma anche a garantire una maggiore tutela dei diritti fondamentali, specificati dal successivo comma 2, dell‟art. 1 suddetto – immodificato – secondo cui la trasparenza è condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive tutelate dall’art. 2 Cost., nonché dei diritti civili, politici e sociali, ed integra, inoltre, il diritto ad una buona amministrazione.
L‟art. 2 quindi, ridefinisce l‟oggetto del D.lgs. 33/2013. Difatti, mentre secondo la formulazione attualmente vigente, oggetto della disciplina del “Decreto Trasparenza” sono gli obblighi di trasparenza concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazione, il nuovo comma 1 dell‟art. 2, così come modificato dall’art. 3 dello schema di Decreto, avrebbe il seguente tenore letterale:” Le disposizioni del presente decreto disciplinano la libertà di accesso di chiunque ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni e dagli altri soggetti di cui all’articolo 2-bis, garantita, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti, tramite l’accesso civico e tramite la pubblicazione di documenti, informazioni e dati concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni e le modalità per la loro realizzazione”.
In tal modo, viene specificato e ampliato l‟oggetto del decreto legislativo n. 33 del 2013, in quanto, l‟obiettivo del principio di trasparenza, non sarebbe più quello di ottenere la pubblicazione delle informazioni e dei documenti in possesso dell‟amministrazione, ma quello di garantire – in maniera generalizzata – la trasparenza della P.A., tramite la libertà di accesso a dati e documenti mediante l‟esercizio dell‟accesso civico, considerato strumento principale di controllo democratico dell‟operato della P.A., in un‟ottica accentuata di trasparenza e pubblicità.
3. L’accesso civico.
La riformulazione dell‟oggetto del Decreto Trasparenza si pone in rapporto di consequenzialità con la vera novità prevista dallo schema di Decreto: l‟istituto dell‟accesso civico, inteso non più come sanzione per la mancata osservanza degli obblighi di trasparenza, così come strutturato ex art. 5 D.lgs. 33/2013, ma come vero e proprio diritto di accesso – prescindendo da qualsiasi valutazione inerenti la legittimazione attiva – ai dati, documenti e informazioni in possesso della P.A. – seppur nel rispetto dei limiti normativamente previsti – e per i quali non sussiste un obbligo di pubblicazione.
Prima di addentrarci nella descrizione della nuova veste dell‟istituto dell‟accesso civico, per ragioni di esaustività espositiva, giova ricostruire la disciplina di tale istituto così come prevista dall‟art. 5, D.lgs. 33/201312 .
L‟accesso civico si sostanzia nella richiesta (gratuita) di documenti, informazioni o dati di cui sia stata omessa la pubblicazione, indirizzata al responsabile della trasparenza dell‟amministrazione che è tenuto a pronunciarsi su di essa entro trenta giorni pubblicando il documento o l’informazione richiesta sul proprio sito e contestualmente comunicando l‟avvenuta pubblicazione al richiedente (con allegazione del documento richiesto o con indicazione del relativo collegamento ipertestuale). Non sono previsti limiti relativi alla legittimazione attiva e non è richiesta motivazione. Giova specificare che, come nel caso dell‟attività anticorruzione, anche in tema di trasparenza (che costituisce un obiettivo funzionale al perseguimento della lotta alla corruzione) è identificata una figura di responsabile unico con compiti di coordinamento nei confronti della pluralità di soggetti tenuti alla applicazione della nuova disciplina. La figura del Responsabile per la trasparenza è identificata all‟art. 43 del decreto 33/2013: è previsto che, di norma, il Responsabile per la prevenzione della corruzione di cui all‟art. 1, comma 7 della legge 6 novembre 2012, n. 190, svolga le funzioni di Responsabile per la trasparenza. Da ciò deriva la coincidenza tra il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e il ruolo di responsabile della trasparenza. Con particolare riferimento agli enti locali, era il segretario comunale ad assumere questo (duplice) ruolo direttamente ex art. 1, comma 7, l. 190/2012.
Tuttavia, la figura del segretario comunale, così come quello provinciale, è stata abrogata dall‟art. 11 dalla riforma Madia, ponendo, così un vero e proprio vuoto in “subiecta materia”, di cui si auspica la soluzione, tramite un coordinamento tra la delega in materia di dirigenza pubblica e quella oggetto del presente studio. In caso di ritardo o mancata pubblicazione delle informazioni oggetto della richiesta di ostensione, è possibile per il richiedente effettuare il ricorso al titolare del potere sostitutivo (ex articolo 2, comma 9-bis della legge 7 agosto 1990 s.m.i.) il quale, verificata la sussistenza dell’obbligo di pubblicazione, nei termini di cui al comma 9-ter del medesimo articolo, provvede ai sensi del comma 3.
All’ultimo comma è previsto che la richiesta di accesso civico comporti, da parte del Responsabile della trasparenza, l’obbligo di segnalazione di cui all’articolo 43, comma 5, in base al quale il responsabile è tenuto a segnalare i casi di inadempimento o di adempimento parziale degli obblighi in materia di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, all’ufficio di disciplina, ai fini dell’eventuale attivazione del procedimento disciplinare. Il responsabile segnala altresì gli inadempimenti al vertice politico dell’amministrazione, all’OIV ai fini dell’attivazione delle altre forme di responsabilità. Nella sua formulazione originaria, l‟accesso civico presta il fianco a due limitazioni: da un lato, esso è circoscritto ai soli atti, documenti e informazioni oggetto dell‟obbligo di pubblicazione imposti dal Decreto 33/2013 alle P.A., dall‟altro, invece, esso più che un autonomo diritto riconosciuto ai cittadini, viene identificato alla stregua di una sanzione in caso di mancata osservanza degli obblighi di pubblicizzazione imposti dalla legge. In tale contesto, l’art. 6 dello schema di Decreto, al fine di ridefinire l‟ambito di applicazione degli obblighi e delle misure in materia di trasparenza, nonché razionalizzare e precisare gli obblighi di pubblicazione, introduce un nuovo comma 2 all‟art. 5, D.lgs. 33/2013, nel quale si statuisce che:”. Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti”.
Da un mero raffronto letterale tra la formulazione originaria e quella discendente dalla nuova disposizione letterale dell‟art. 5, si evince il netto cambiamento di prospettiva da parte del legislatore, il quale, al pari di quanto previsto dall‟art. 22, l. n. 241/1990, trasforma l‟accesso civico alla stregua di un “diritto”, riconosciuto a tutti i consociati, inerenti i dati e i documenti in possesso della P.A., che trova il suo equipollente in quello che nei sistemi di “common law” viene definito con l‟acronimo di “FOIA” (Freedom Of Information Act). Particolarmente significativo è il mutato oggetto del diritto di accesso civico. Mentre la disciplina previgente statuiva che oggetto dell‟accesso civico erano i documenti, gli atti e le informazioni in possesso delle ente pubblico, lo schema di Decreto, si riferisce esclusivamente ai “dati e documenti”, espungendo, quindi, qualsiasi riferimento alle mere “informazioni”. Tale limitazione, in realtà è condivisibile, in quanto il termine “informazione” si contraddistingue per la sua eccessiva vaghezza e soggettivismo. Inoltre, è opportuno evidenziare che tutte le informazioni in possesso della P.A., vengono materialmente trascritte in atti e documenti, di talché l‟inciso “informazione” risulterebbe fuorviante. Tuttavia, l‟eliminazione del richiamo alle “informazioni” è solo apparente, in quanto, è stato, incoerentemente, specificato nel successivo comma 3, dell‟art. 5 del D.lgs. 33/2013, il quale, specifica che l‟istanza di accesso deve – imprescindibilmente – contenere l‟indicazione “dei dati, le informazioni e i documenti richiesti”.
4. Ambito di applicazione.
I legittimati passivi al diritto di accesso civico. L’art. 3 dello schema di decreto introduce l‟art. 2 – bis del D.lgs. 33/2013, il quale andrà a disciplinare l‟ambito soggettivo di applicazione del decreto citato e sostituirà il previgente art. 11 (conseguentemente abrogato).
Rispetto alla disciplina previgente, la nuova norma supera alcune incertezze interpretative in fase di applicazione del D.lgs. 33/2013 e amplia notevolmente, l‟ambito di applicazione del Decreto Trasparenza. Tra le prime, rilevanti, modifiche viene in rilievo l„introduzione dell‟inciso “in quanto compatibili” nella nuova formulazione letterale dell‟art. 2- bis (non prevista dal previgente art. 11), che estende l‟ambito di applicazione del Decreto Trasparenza, limitamento all‟attività di pubblico interesse, alle Autorità portuali, agli enti pubblici economici e agli ordini professionali, alle società con capitale interamente pubblico (anch‟esse oggetto di una profonda rivisitazione ad opera della delega conferita al Governo ex art. 18, l. n. 124/2015), fatta eccezione per quelle che emettono – stabilmente – azioni nei mercati regolamentati e quelle che, mediante un criterio di natura temporale, prima del 31 dicembre 2015 hanno emesso strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati e, inoltre, le società partecipate di tali società.
La nuova normativa si applica anche alle associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato, anche se privi della personalità giuridica di cui al Titolo II, Capo II e III del Codice civile. Affinché la nuova normativa sia applicabile anche a tali enti, è necessaria la sussistenza – alternativa – di uno di tali criteri, a) il finanziamento maggioritario da parte della P.A., a favore dell‟ente; b) il potere di nomina dei titolari di cariche direttive ed amministrative, da parte dell‟ente pubblico. Tuttavia, al fine di non rendere priva di effetti la disciplina “de qua” con riferimento ai legittimati passivi del diritto di accesso civico, alla luce dell‟ampliata platea di soggetti nei cui confronti si può esercitare siffatto diritto, è necessaria una norma di coordinamento tra i vari decreti legislativi adottati dal legislatore delegato in attuazione delle deleghe di cui alla l. n. 124/2015, così da offrire un quadro normativo certo e ben delineato e privo di lacune.
5. I costi del diritto di ostensione civico.
Proseguendo nell’analisi delle novità apportate dallo schema di decreto adottato dal Governo, rileva l‟attenuata gratuità dell‟accesso civico, rispetto alla disciplina previgente dettata dal combinato disposto degli artt. 3 e 5, c.2. D.lgs. 33/13. Nella nuova formulazione del Decreto Trasparenza, bisogna scindere due ipotesi: la prima attiene alla mera fruizione (id est: esame) del documento; la seconda, invece, al rilascio di copie del documento oggetto dell‟istanza di accesso civico. In tal modo, il legislatore ha voluto equiparare la disciplina “de qua” a quella dell‟accesso in senso “classico” di cui all‟art. 22, l. n. 241/90. Difatti, mentre nel primo caso, l‟art. 3, c.1. stabilisce la gratuità della mera visione dei dati e documenti in possesso dell‟ente ed oggetto dell‟accesso civico, nella seconda fattispecie, l‟art. 5, c.3, il rilascio di copie, cartaceo o elettronico, dei dati o documenti in possesso della P.A., è assoggettato al rimborso delle spese effettivamente sostenute dall‟ente.
6. I controinteressati.
L‟esigenza di tutela della privacy ex D.lgs. 196/2003 di eventuali soggetti contro interessanti, si pone anche con riferimento al diritto di accesso civico. L’esigenza di bilanciamento tra il principio di trasparenza e pubblicità e quella di tutela della riservatezza, si coglie in modo esemplare nell‟art. 5, c. 4, D.lgs. 33/2013, così come introdotto dall’art. 6 dello schema di Decreto, secondo cui la P.A. ricevente l‟istanza di accesso ex art 5. se conseguentemente ad una valutazione discrezionale reputi che sussistano controinteressati – elencati ai sensi del successivo art. 5 – bis, c.2, comunica, a mezzo raccomandata andata – ritorno o, in alternativa, a coloro che abbiano acconsentito a tale forma di comunicazione, a mezzo pec, un avviso inerente l‟istanza di accesso civico, avverso la quale, entro il termine decadenziale di dieci giorni decorrenti dalla data di ricevimento della predetta comunicazione, potranno presentare motivata opposizione.
L’elenco dei soggetti controinteressati è contenuto nel citato art. 5- bis, c.2, Decreto Trasparenza. Si tratta di soggetti che possono vantare un interesse attinente: a) alla protezione dei propri dati personali, in osservanza al D.lgs. 196/2003; b) alla liberta e segretezza della propria corrispondenza intesa in senso lato, ex art. 15 Cost.; c) alla tutela di interessi commerciali ed economici di una persona fisica ovvero giuridica, compresa la proprietà intellettuale, il diritto d‟autore e i segreti commerciali. Sebbene l‟esigenza di tutela della riservatezza di eventuali soggetti controinteressati al diritto di ostensione civica, deve essere salutata con favore, in quanto, vengono predisposti strumenti di tutela posti a presidio di interessi di pari rango rispetto alla trasparenza (tra cui la riservatezza della corrispondenza). Nonostante ciò, la tutela degli interessi dei controinteressati desta alcune perplessità. Da un lato, infatti, non si può fare a meno di osservarsi l‟eccessiva platea di soggetti potenzialmente controinteressati al diritto di accesso civico, dall‟altro, l‟aggravarsi dei costi per la P.A., la quale, qualora non possa provvedere ad inoltrare l‟avviso ai controinteressati a mezzo pec, sarebbe costretta a rendere edotti tali soggetti dell‟istanza di accesso a mezzo raccomandata, con conseguente attenuazione dell‟esigenza di abbattimento dei costi e di una migliore efficienza della P.A.. Sul punto, tuttavia, è opportuno attendere le modifiche che verranno apportate al Codice dell‟Amministrazione Digitale, ex D.lgs. 82/2005, ad opera della delega conferita al Governo dalla riforma Madia e attuata con uno schema di Decreto, sottoposto allo studio del Consiglio di Stato per il proprio parere consultivo.
7. I limiti al diritto di ostensione civico.
La nuova formulazione del diritto di accesso civico non è esente da limitazioni.
Il nuovo art. 5 – bis del Decreto Trasparenza, così come risultante dalle modifiche apprestante dall‟art. 6, c. 2, prevede una serie di fattispecie ove può essere escluso l‟accesso civico. Si tratta di ipotesi poste a tutela di interessi pubblici particolarmente rilevanti (sicurezza nazionale, difesa e questioni militari ecc), e che poste in rapporto con il principio di trasparenza, risultano essere di rango superiore e richiedono, quindi, una tutela più accentuata rispetto all‟interesse sotteso alla richiesta di accesso civico. Come già chiarito “infra”, l‟accesso civico può essere rifiutato qualora sia pregiudizievoli per gli interessi dei privati attinenti: a) alla protezione dei propri dati personali, in osservanza al D.lgs. 196/2003; b) alla liberta e segretezza della propria corrispondenza intesa in senso lato, ex art. 15 Cost.; c) alla tutela di interessi commerciali ed economici di una persona fisica ovvero giuridica, compresa la proprietà intellettuale, il diritto d‟autore e i segreti commerciali. Infine vengono richiamate le medesime limitazioni previste dall‟art. 24, c.1, l. n. 241/90 (Segreto di Stato, procedimenti tributari ecc.. ). Le limitazioni sopra descritte sono in parte temperate dall‟istituto dell‟”accesso civico parziale” ex art- 5 – bis, c. 4, secondo cui, se limitazioni previste dai commi 1 e 2 dell‟art. 5 –bis concernono solo alcune parti del documento o del dato oggetto dell‟istanza di accesso, deve essere ugualmente consentita l‟ostensione della restante parte non soggetta a tali limitazioni.
8. La responsabilità dirigenziale.
L‟inadempimento degli obblighi di trasparenza, ai sensi dell‟art. 46 D.lgs. 33/2013, nella sua formulazione originaria, costitutiva elemento di valutazione per la responsabilità dirigenziale, ed integrava gli estremi dell‟illecito da cui conseguiva il danno all‟immagine della P.A., nonché elemento di valutazione sotto il duplice profilo della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alle performance individuali dei responsabili. Tuttavia, il responsabile era ritenuto esente da responsabile qualora fosse riuscito a dimostrare che la mancata osservazione agli obblighi dettati dal Decreto Trasparenza dipendesse da causa a lui non imputabile. Si trattava di una clausola di salvaguardia predisposta a favore dei dipendenti pubblici, i quali, provata l‟inimputabilità della causa inerente il mancato adempimento degli obblighi di trasparenza, gli stessi sarebbero stati ritenuti esenti da responsabilità. Ma allo stesso tempo si trattava di una “probatio diabolica”, alla luce dell‟oggettiva e soggettiva difficoltà di riuscire a dimostrare che la mancata osservanza di tali obblighi è dipeso da una causa eziologicamente non imputabile al dipendente pubblico.
Chiarito ciò, lo schema di decreto innova profondamente la disciplina della responsabilità dirigenziale consequenziale alla mancata osservanza degli obblighi di trasparenza, modificando l‟art. 46 citato. La prima modifica concerne la rubrica dell‟art. 46, la quale verrebbe significativamente modificata in ”Responsabilità derivante dalla violazione delle disposizioni in materia di obblighi di pubblicazione e accesso civico.” Tale modifica non è meramente linguistica, ma porta con sé risvolti pratici particolarmente rilevanti, ampliando il novero delle ipotesi di responsabilità dirigenziale. Infatti tale forma di responsabilità sussisterà non solo qualora vi sia stata la violazione di uno degli obblighi di pubblicazione disposti dal D.lgs. 33/2013 (com‟era previsto dalla disciplina originaria), ma anche in caso di violazione del diritto di accesso civico. Tali rilievi trovano supporto anche nella nuova formulazione dell‟art. 46, il quale prevede che, oltre all‟inadempimento degli obblighi di pubblicità, il rifiuto, il differimento o la limitazione del diritto di accesso civico, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge, costituisce, e qui la disciplina rimane praticamente immodificata, elemento di valutazione per la responsabilità dirigenziale, ed “eventuale” causa di danno all‟immagine della P.A., nonché elemento di valutazione sotto il duplice profilo della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alle performance individuali dei responsabili, salvo che non provi che l‟inadempimento è dipeso da causa ad egli non imputabile. Con precipuo riferimento all‟”eventuale causa per danno all’immagine”, si rileva che, affinché la mancata osservanza degli obblighi di cui al D.lgs. 33/2013 possa sfociare in un danno all‟immagine per l‟ente, è altresì necessario che tale inadempimento integri, allo stesso tempo, gli estremi delle fattispecie che danno luogo a tale peculiare forma di danno, e tra cui vengono annoverate le disposizioni del codice penale previste dal Libro II – Titolo II – Dei delitti contro la Pubblica Amministrazione.
9. Le. differenze con l’accesso classico ex art. 22, l. n. 241/90.
Con l‟entrata in vigore del D.lgs. 33/2013 è stato introdotto nel nostro ordinamento un duplice sistema di ostensione: l‟accesso tradizione, disciplinato dall‟art. 22, ss. l. n. 241/90; e l‟accesso civico ex art. 5 dD.lgs. 33/2013– nella sua nuova versione ampliata – che concerne i dati e i documenti in possesso della P.A., ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione.
Una prima differenza tra le due forme di accesso si evince sul crinale soggettivo. L‟art. 22, c.1, lett. b) della l. n. 241/90 dispone che il diritto di accesso in senso classico possa essere esercitato da quei soggetti privati, compresi anche alle associazione rappresentative di interessi pubblici o diffusi, che siano titolari di un interesse diretto, concreto ed attuale all‟esercizio del diritto di ostensione e, corrispondente ad una situazione giuridicamente rilevante e meritevole di tutela strettamente collegata al documento di cui si chiede l‟accesso. Inoltre, la richiesta di accesso agli atti deve essere motivata, al fine di limitare l‟esercizio di un diritto finalizzato ad un controllo generalizzato della P.A.. In una prospettiva diametralmente opposta, si pone l‟accesso civico ex art. 5 D.lgs. 33/2013, il quale, sia nella formulazione previgente che in quella discendete dalle modifiche apportate dallo Schema di Decreto adottato dal Governo, la richiesta di accesso non richiede alcuna qualificazione e motivazione, per cui il richiedente non deve dimostrare di essere titolare di “un interesse diretto, concreto ed attuale e, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento di cui si chiede l’accesso”. Tuttavia, può invero accadere che un soggetto titolare di una posizione giuridicamente rilevante possa ottenere un‟adeguata soddisfazione dei propri interessi con l‟esercizio del diritto di accesso civico, sicuramente più vantaggioso rispetto all‟accesso tradizionale, dato che non necessita di motivazione rispetto alla richiesta di ostensione. Sul versante oggettivo, i limiti previsti dal nuovo art. 5 – bis, risultano “prima facie” più ampi e incisivi rispetto a quelli disposti dall‟art. 24, l. n. 241/90, consentendo alle amministrazioni di impedire l‟accesso civico nel caso in cui possa compromettere interessi pubblici particolarmente rilevanti. Ciò comporta che residueranno delle ipotesi – ancorché residuali – ove il soggetto – potrà accedere all‟accesso tradizionale, solo ove sussistano i requisiti “ex lege” prescritti, ad atti e documenti per i quali l‟accesso civico è precluso dalla sussistenza di una delle fattispecie preclusive e art. 5 – bis. Va da sé che in siffatto contesto, la richiesta di accesso classico ex art. 22 l. n. 241/90 necessiterà di un supporto motivazionale particolarmente esaustivo.
A cura di PIETRO ALGIERI

Natura giuridica della SCIA alla luce della riforma Madia. Le implicazioni pratiche in tema di poteri amministrativi e tutela del terzo A cura di ANTONIA MACHEDA


La questione della natura giuridica della SCIA ha da sempre interessato il dibattito dottrinale: tuttavia, la problematica non è solo teorica.
Aderire alla tesi del modulo organizzatorio o a quella dell’atto amministrativo tacito significa, infatti, configurare diversamente il potere inibitorio spettante alla P.A. oltre che individuare una differente tutela per i terzi controinteressati.
La presente trattazione, partendo da una breve disamina delle recenti modifiche legislativi della SCIA, si soffermerà proprio sulle implicazione pratiche che derivano dall’adesione all’una o all’altra teoria sulla natura giuridica.
L’istituto della SCIA-DIA nasce a partire dagli anni novanta allorquando il legislatore, influenzato dalla normativa comunitaria in tema di concorrenza e libero mercato, ha iniziato un percorso di liberalizzazione delle attività private in attuazione dell’art. 41 Cost.; viene, così, introdotto il principio di autoresponsabilità del privato, passando da un controllo preventivo ad un controllo successivo della PA.
Le attività soggette a DIA erano dapprima limitate: l’istituto trovava, infatti, applicazione solo nelle materie individuate nella direttiva n. 123/2006 CE, cd Direttiva Servizi.
A partire dal 2005, dopo la trasformazione della DIA in SCIA, tale modulo semplificato è diventato un modello generalizzato: ai sensi del novellato art. 19 l. 1990 n. 241 trova, infatti, applicazione in vari settori, ivi compreso quello edilizio.
Da ultimo, la SCIA è stato oggetto di un’ulteriore modifica per effetto della legge n. 124 del 2015 (c.d. Legge Madia); tale normativa, per un verso, ha direttamente innovato l’art. 19 della l. 1990 n. 241 e, per altro verso, ha delegato il governo ad attuare una maggiore liberalizzazione e semplificazione in materia.
In virtù della citata delega, oggi è stato elaborato uno schema di decreto legislativo che ha ottenuto il parere favorevole del Consiglio di Stato nel marzo del 2016.
Come accennato, fin dalla sua introduzione, l’istituto è stato oggetto di un acceso dibattito in merito alla sua natura giuridica.
Per un verso, si è sostenuto che la SCIA fosse un provvedimento tacito della PA, formatosi a seguito del silenzio dalla stessa serbato in merito alla dichiarazione del privato.
In verità, attenta dottrina ha osservato che tale teoria non può essere seguita: la SCIA, infatti, si configura quale atto privato e modulo organizzatorio che trova la su legittimazione direttamente nella legge.
Non c’è, quindi, alcun provvedimento amministrativo tacito: c’è solo una dichiarazione del privato che, in caso di mancato esercizio del potere inibitorio della PA, diviene titolo legittimante ex lege.
La tesi privatistica, inoltre, trova conferma anche da un’attenta analisi della legge 241/1990: se la SCIA fosse un provvedimento tacito, non avrebbe senso collocarla al di fuori dell’art. 20, che disciplina proprio il silenzio assenso.
Tale orientamento è stato recepito anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 15 del 2011 oltre che dal legislatore del 2011; quest’ultimo, tuttavia, come vedremo meglio più avanti, si è discostato dal Supremo Consesso in ordine alla tutela configurabile per il terzo controinteressato.
Il dibattito sulla natura giuridica ha inciso, inoltre, sulla problematica configurazione dei poteri amministrativi spettanti all’amministrazione.
Con la SCIA, infatti, il privato può iniziare immediatamente l’attività segnalata, fermo restando il controllo successivo della PA in ordine alla conformità a legge. Nella previgente disciplina del 2014, in particolare, l’amministrazione poteva, nei sessanta giorni successivi alla segnalazione, esercitare i poteri inibitori o conformativi. Tuttavia, decorso inutilmente tale termine, la PA poteva intervenire solo in caso di pericolo di danno dei c.d. “interessi sensibili” e previo motivato accertamento dell’impossibilità di conformazione; restavano fermi, in ogni caso, i poteri di autotutela ex artt. 21 quinquies e 21 nonies legge 1990 n. 241 nonché il generale potere sanzionatorio ex art. 21 della citata legge. Con la Legge Madia del 2015 n. 124, vengono innovati i poteri amministrativi spettanti alla PA in sede di controllo successivo: ai sensi del novellato art. 19 legge 1990 n. 241, l’amministrazione, nell’esercizio del potere conformativo, può indicare al privato finanche le misure da adottare.
Ai sensi del comma quarto, poi, decorso il termine dei sessanta giorni, i poteri inibitori non sono preclusi: l’amministrazione può adottare i provvedimenti di cui al comma terzo anche se sono scaduti i termini e purchè vi siano le condizioni per l’annullamento ex art 21 nonies.
Inoltre, la riforma Madia ha introdotto un “nuovo paradigma” nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione: all’art. 21 nonies ha previsto, infatti, un nuovo termine di diciotto mesi per l’esercizio dell’autotutela da parte dell’amministrazione.
Si è avvertita dunque, l’esigenza di tutelare l’affidamento del privato: i poteri ex post della PA devono avere un limite, anche alla luce dei principi di accessibilità e prevedibilità delle norme sanciti dalla giurisprudenza Cedu.
La previsione di tale termine, tuttavia, crea qualche esigenza di coordinamento: per come rilevato nel citato parere del Consiglio di Stato, vi è innanzitutto l’incertezza di determinare il dies a quo per la decorrenza dei diciotto mesi oltre quella di delimitare la fattispecie derogativa di cui al comma secondo bis dell’art. 21 nonies legge 1990 n. 241.
Inoltre, ci si chiede se il citato termine di diciotto mesi debba applicarsi o meno anche all’intervento in caso di dichiarazioni mendaci ex art 21, comma primo, e se si applichi anche a provvedimenti che non siano formalmente definiti di “annullamento”.
Su tali problematiche, il Consiglio di Stato auspica un maggiore coordinamento da parte del legislatore delegato.
Alla luce di quanto detto, appare evidente come la recente riforma Madia abbia confermato la tesi privatistica del modulo organizzatorio: ciò lo si desume dal comma quarto dell’art 19 legge 1990 n. 241, che prevede la possibilità di configurare i poteri inibitori anche dopo i sessanta giorni.
Viceversa, se la SCIA fosse un provvedimento tacito, i poteri inibitori della PA sarebbero esauriti con la formazione del silenzio assenso. Da ultimo, la natura giuridica della SCIA rileva anche al fine dell’individuazione della tutela da accordare al terzo controinteressato.
Se, infatti, la SCIA fosse un atto amministrativo tacito, il terzo potrebbe solo sollecitare l’esercizio dei poteri inibitori e, in caso di inerzia, attivare la procedura avverso il silenzio ex artt. 31 e 117 cpa. In tal modo, però, la tutela del terzo sarebbe minimale: l’azione ex art. 31 ha per oggetto solo l’accertamento dell’obbligo di provvedere della PA.
Il giudice, quindi, non può esercitare i poteri inibitori di competenza dell’amministrazione, pena violazione dell’art. 34, c. 2 cpa: non può, quindi, bloccare l’attività illecita del privato.
Inoltre, vi sarebbe il problema delle misure cautelari ante causam: se la SCIA fosse un provvedimento tacito, non sarebbe possibile richiedere la tutela ante causam prima della formazione del silenzio significativo: non essendovi ancora un provvedimento, non vi potrebbe essere lesione del terzo.
Con la tesi del modulo organizzatorio, invece, il terzo gode di una tutela piena: è questa la prospettiva sposata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 15 del 2011.
Secondo il Supremo Consesso Amministrativo, infatti, il terzo potrà avvalersi, oltre che dell’azione avverso il silenzio, anche dell’azione atipica dichiarativa.
Con tale azione atipica, ammissibile in virtù del principio dell’atipicità della tutela amministrativa, il controinteressato può avere una tutela ante causam, anche di tipo cautelare: alla scadenza dei sessanta giorni, infatti, l’azione di accertamento si convertirà automaticamente in azione di annullamento ex art 29 cpa.
Il terzo, contestualmente, potrà richiedere la condanna ex art. 30 cpa: in questo modo, egli potrà godere della tutela reale che gli è preclusa con l’azione avverso il silenzio.
L’impostazione dell’Adunanza Plenaria non è stata, però, condivisa dal legislatore del 2011: con la novella legislativa, infatti, non è accordabile alcuna tutela reale al controinteressato il quale potrà esperire solo l’azione avverso il silenzio, ai sensi del comma 6 ter dell’art. 19 legge 1990 n. 241.
Il problema della tutela del terzo è ancor più attuale alla luce della riforma Madia del 2015: la tutela avverso il silenzio di cui al comma 6 ter contrasta con il novellato comma quarto dell’art. 19 che riconosce alla PA l’esercizio dell’inibitoria anche dopo la scadenza dei sessanta giorni.
Si auspica, quindi, un maggiore coordinamento della disciplina ad opera del legislatore delegato.

MODIFICA DELLA COSTITUZIONE: COSTITUZIONALISTI SUGGERISCONO UN REFERENDUM CON PIU' QUESITI......


Sono in tutto 56 le firme raccolte contro la cosiddetta "RIFORMA" della nostra COSTITUZIONE.

Non sono firme "leggere". Sono quelle di un cospicuo gruppo fra i più importanti costituzionalisti italiani che hanno voluto diffondere un interessante documento critico sulle riforme costituzionali. 

Fra essi si contano 17 ex giudici della Consulta. Ben 11 presidenti emeriti della Corte costituzionale, 5 vicepresidenti e un altro magistrato della Consulta. 

La caratteristica di coloro i quali hanno voluto sottoscrivere il documento è che non appartengono solo ad una corrente politico-culturale ma, invece, sono appartenenti sono noti per le loro tendenze sia di centrosinistra che di centrodestra. 

L'interessante documento si rivolge alla classe politica per evitare la radicalizzazione che, inevitabilmente, nascerebbe da un "referendum" nel quale il cittadino può solo "confermare" o "non confermare" il testo cosiddetto "Boschi". 

Il documento dei 56 costituzionalisti propone infatti di far svolgere una pluralità di quesiti referendari per lasciar libero l’elettorato di decidere su singole parti omogenee della riforma costituzionale, che, attenzione, riguarda ben il 57% della nostra Carta Costituzionale. 

I costituzionalisti sottoscrittori del documento voterebbero "NO" se il quesito dovesse essere unico, una circostanza gli stessi ritengono ingiustificata visto che per loro questa "riforma" Boschi contiene novità positive. 

Nella bilancio dei pro e dei contro gli stessi, comunque, dichiarano che gli aspetti positivi sarebbero inferiori a quelli negativi. 

Il documento boccia inesorabilmente il modo in cui si è superato il bicameralismo perfetto con la creazione di un Senato troppo debole e con competenze e struttura che non lo rendono una vera camera di rappresentanza delle amministrazioni regionali. 

I procedimenti legislativi della "riforma" sono definiti confusi, e, per quanto riguarda la modifica al Titolo V, troppo centralista. 

Ecco il testo come pubblicato sul sito de “La Stampa”.

"Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche. Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo. Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. E’ indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.

2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.

3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.

4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.

5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.

6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.

7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto. Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente). Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

I firmatari
Francesco AMIRANTE Magistrato
Vittorio ANGIOLINI Università di Milano Statale
Luca ANTONINI Università di Padova
Antonio BALDASSARRE Università LUISS di Roma
Sergio BARTOLE Università di Trieste
Ernesto BETTINELLI Università di Pavia
Franco BILE Magistrato
Paolo CARETTI Università di Firenze
Lorenza CARLASSARE Università di Padova
Francesco Paolo CASAVOLA Università di Napoli Federico II
Enzo CHELI Università di Firenze
Riccardo CHIEPPA Magistrato
Cecilia CORSI Università di Firenze
Antonio D’ANDREA Università di Brescia
Ugo DE SIERVO Università di Firenze
Mario DOGLIANI Università di Torino
Gianmaria FLICK Università LUISS di Roma
Franco GALLO Università LUISS di Roma
Silvio GAMBINO Università della Calabria
Mario GORLANI Università di Brescia
Stefano GRASSI Università di Firenze
Enrico GROSSO Università di Torino
Riccardo GUASTINI Università di Genova
Giovanni GUIGLIA Università di Verona
Fulco LANCHESTER Università di Roma La Sapienza
Sergio LARICCIA Università di Roma La Sapienza
Donatella LOPRIENO Università della Calabria
Joerg LUTHER Università Piemonte orientale
Paolo MADDALENA Magistrato
Maurizio MALO Università di Padova
Andrea MANZELLA Università LUISS di Roma
Anna MARZANATI Università di Milano Bicocca
Luigi MAZZELLA Avvocato dello Stato
Alessandro MAZZITELLI Università della Calabria
Stefano MERLINI Università di Firenze
Costantino MURGIA Università di Cagliari
Guido NEPPI MODONA Università di Torino
Walter NOCITO Università della Calabria
Valerio ONIDA Università di Milano Statale
Saulle PANIZZA Università di Pisa
Maurizio PEDRAZZA GORLERO Università di Verona
Barbara PEZZINI Università di Bergamo
Alfonso QUARANTA Magistrato
Saverio REGASTO Università di Brescia
Giancarlo ROLLA Università di Genova
Roberto ROMBOLI Università di Pisa
Claudio ROSSANO Università di Roma La Sapienza
Fernando SANTOSUOSSO Magistrato